Anche lui lo aveva capito: per indagare sulla mafia occorreva ricostruire il flusso di denaro derivante dalle attività illegali. E per farlo Giangiacomo Ciaccio Montalto, nato a Milano nel 1941, arrivò a studiare quello che avveniva anche all'interno del mondo degli affari e delle banche di Trapani, la città in cui lavorava dal 1971. Nell'autunno del 1982 la sua inchiesta gli permise di far arrestare quaranta persone, uomini di Cosa nostra e colletti bianchi accomunati dall'accusa di associazione mafiosa.
Per ricostruire il panorama criminale della città e della provincia, inoltre, collaborava con altri magistrati. Per esempio lo fece con Carlo Palermo, ai tempi a Trento, dove aveva aperto un'inchiesta su un colossale traffico di stupefacenti che chiamava in causa mafiosi siciliani e personaggi che venivano dal Medioriente. E via via che procedette nella sua ricostruzione, Palermo era giunto ad estendere la sua lente investigativa anche su ambienti dei servizi di sicurezza, terroristi stranieri ed esponenti politici italiani.
Sembrò, ai due magistrati impegnati ognuno sul proprio fronte, di essere ormai vicini a una svolta non solo giudiziaria. Ma le scarcerazioni disposte a Trapani – scarcerazioni che mettevano in discussione l'impianto investigativo costruito fino a quel momento – determinarono un pesante stop al lavoro di Ciaccio Montalto, che già sotto minaccia decise di andarsene e chiese di essere assegnato a una sede in Toscana.
Ma non riuscì a vivere abbastanza per arrivare a Firenze perché dalle intimidazioni sì passò ai fatti. Accadde nel gennaio 1983 quando il magistrato, senza alcuna protezione, stava rientrando a casa da solo. Tre killer lo attesero e contro di lui usarono mitragliette e pistole calibro 38. E dopo un iter giudiziario tortuoso, solo molti anni dopo si arrivò ai corleonesi come mandanti di quel delitto.