QUOTIDIANO DEL SUD
del 21 settembre 2016
"Cio che non sono mai riuscita ad accettare della morte di mio padre è la mortificazione a cui è stato sottoposto il suo corpo. Quel giorno, sotto casa, il tritolo che avevano piazzato sotto la sua auto, lo ha dilaniato". Adriana, figlia di Gennaro Musella, l'ingegnere navale ucciso il 3 maggio del 1982, a Reggio Calabria, davanti alla bara dell'uomo che più di tutti aveva contato nella sua vita, giurò che avrebbe fatto di tutto per mantenere viva la sua memoria. E da quell'atto di ribellione e di dolore, nacque anni dopo il "Coordinamento nazionale antimafia Riferimenti", il cui simbolo, una gerbera gialla, ricorda il fiore preferito da suo padre, la margherita, e il suo stelo lungo e robusto, la passione e la tenacia nel portare avanti il suo impegno. Nonostante gli attacchi e il prezzo, molto alto, che ha pagato sul piano personale.
"Perchè papà era un uomo buono, una persona che non vedeva mai il male nelle cose, perché il male non gli apparteneva. Lui aveva fiducia nel prossimo - spiega Adriana-. Per questo il suo assassinio per me è stato un atto di estrema crudeltà. Conoscendo il suo carattere, lui una cosa del genere non l'avrebbe mai neanche lontanamente immaginata. Inoltre era sempre accanto ai più deboli. Chi l'ha conosciuto può testimoniare. Io non ricordo di aver mai avuto uno schiaffo da parte sua. Era una persona molto dolce, che invitava sempre al ragionamento. Ricordo le sue carezze, tante, i suoi sorrisi accoglienti. Reagiva soltanto davanti alla prepotenza e quando qualcuno approfittava, per raggirarlo, della sua disponibilità. Papà aiutava tutti e se un suo operaio aveva delle difficoltà sapeva bene di poter contare su di lui. Sui cantieri mangiava sempre in loro compagnia, alla pari".
Gennaro Musella, salernitano, si occupava della realizzazione di opere marittime. Nel cosentino aveva costruito sia il porto di Cetraro che quello di Belvedere Marittimo. Suo padre era un armatore. Lui, cresciuto sin da piccolo nei cantieri navali, aveva studiato ingegneria a Genova per continuare la tradizione di famiglia. Era un ragazzo allegro e volenteroso. Anche quando durante il periodo della guerra, come raccontava ai suoi figli quando facevano i capricci perché non volevano mangiare, era stato costretto a nutrirsi di sole bucce di patate.
I suoi impegni lavorativi lo portavano sempre più spesso in Calabria, nel reggino in particolare.
"Papà ha viaggiato per molto tempo - spiega Adriana - e mia madre, io e i miei fratelli Anna Maria, Antonella e Marco, stavamo a Salerno. Ma mamma a un certo punto decise di seguirlo e per me che allora avevo 17 anni, fu un vero trauma lasciare la mia città e una miriade di cugini, le mie amiche, le mie abitudini. All'inizio facevo fatica anche a capire quando si parlava in dialetto calabrese. E così ci trasferimmo tutti nella città dello Stretto dove io feci l'ultimo anno di liceo".
Adriana ricorda la lievità del genitore che amava molto la musica napoletana e il bel canto. Era un uomo allegro, sempre con il sorriso sulle labbra. Anche sul lavoro pare arrivasse sempre intonando una canzone. E ad accompagnarlo al pianoforte quando eseguiva brani della tradizione partenopea, c'era sempre il figlio Marco. "Reginella", era la sua preferita. Anche la sera prima dell'attentato in cui ha perso la vita, ha cantato la sua Napoli.
"E poi amava cucinare il pesce - racconta Adriana -, perché papà aveva sempre fatto vita di mare. E l'arte, la pittura in particolare, e i fiori. Quando tornava dai cantieri si fermava per raccoglierli ai bordi delle strade e li portava a casa. Papà era una persona semplice, non è mai stato un eroe e io non ho mai voluto che lo diventasse, neanche dopo la sua morte".
E poi amava molto i suoi figli, la sua famiglia d'origine, la sua mamma, i suoi fratelli. Loro dopo la sua scomparsa si sono addirittura rifiutati di venire in Calabria.
"Ma non credo che la colpa della sua morte sia di questa terra - continua la figlia-. Lui la Calabria l'amava molto. Era innamorato soprattutto di Bagnata Calabra dove aveva comprato dei terreni sulla quale c'era anche una torre saracena, torre Ruggero. In questo posto voleva realizzare la seconda Positano, immaginava strutture turistiche e opportunità occupazionali per tutti. Quando ci fu l'alluvione papà mise a disposizione tutti i suoi mezzi per liberare la zona dal fango. E lo fece gratuitamente".
Gennaro Musella non si sentiva minacciato dalla criminalità, era convinto che la Calabria non gli avrebbe mai mostrato il suo volto duro perché lui rispettava quei luoghi e le persone con cui condivideva il suo tempo . E quando i suoi amici campani lo mettevano in guardia contro quella "brutta gente", lui rispondeva di contro che i calabresi avevano un cuore grande. Lui li conosceva, lo sapeva bene.
"Io non ho mai provato risentimento nei confronti dei calabresi - spiega Adriana -. Mio padre volle venire a vivere qui e io rispetto ancora oggi quella scelta".
Del suo genitore la presidente di "Riferimenti", ha ancora un ricordo vivido, prezioso. E struggente.
"Quando volli sposarmi ancora giovanissima, avevo appena iniziato l'università - ricorda -, lui mi mise davanti un miliardo di possibilità allettanti come andare a studiare a Parigi o alla Bocconi a Milano pur di non farmi fare quel passo. Le ha provate tutte ma io testarda ho voluto andare fino in fondo e lui alla fine ha rispettato la mia scelta. E proprio per il legame speciale che c'era tra di noi mi sono sempre guardata bene dal deluderlo. La nostra complicità mi impegnava ad avere con lui un rapporto leale, rispettoso. Mia madre era molto più severa e quindi papà per me era il mio confidente, un amico. Non gli ho mai nascosto niente e credo di aver ereditato da lui la fiducia nel prossimo anche se poi, proprio per questo, ho avuto delle profonde delusioni. Io ho sofferto molto quando mi hanno fatto del male gratuitamente perché non riuscivo a spiegarmi tanta cattiveria nei miei confronti".
Adriana Musella aveva 29 anni e un figlio di 10, quando le hanno ucciso il padre.
"Quando ti ammazzano una persona cara -racconta -, la famiglia continua a pagare anche dopo. E ti assale la disperazione, l'incredulità, l'impotenza, io non auguro a nessuno la fine che ha fatto papà, con una mano in un posto, un braccio in un altro, le gambe amputate, il cervello che è schizzato fino al portone del palazzo di fronte. Le conseguenze di una tale esperienza si vedono a medio-lungo termine nelle persone. Anche dopo la sua morte abbiamo ricevuto richieste estorsive, volevano soldi gli sciacalli, ci hanno telefonato dicendo che ci avrebbero fatto fare la stessa fine di mio padre. E per un lungo periodo davanti al nostro portone ancora sventrato dall'esplosione, c'era sempre una macchina della polizia. Mio figlio Saverio era legatissimo al nonno e papà lo accompagnava ogni mattina a scuola. E infatti il giorno in cui è saltato in aria, si era diffusa la voce che in macchina ci fosse anche il bambino. Io non ero a Reggio Calabria. Mi trovavo a Roma con mio figlio per una visita specialistica. Credo che questo consulto medico gli abbia salvato la vita".
Adriana Musella, seppur dopo tanti anni di impegno sul fronte della memoria, non riesce a trattenere le lacrime quando si percorre la vita a ritroso, fino a quel 3 maggio del 1982,
"Io sono stata svegliata verso le 8 e 45 da una telefonata di estranei che mi invitavano a ritornare subito a casa, a Reggio, perché mio padre non stava bene - ricorda -. Non riuscivo a spiegarmi perché mi chiamavano degli sconosciuti. Io papà l'avevo sentito la sera prima e lui era molto nervoso e arrabbiato perché gli avevano chiuso la strada a Bagnara, la stessa che portava sui terreni con la torre che aveva acquistato, che era di sua proprietà. Noi ci chiamavamo almeno due o tre volte al giorno perché essendo io la prima figlia, lui si confidava sempre con me. Papà aveva già denunciato alla Regione le irregolarità sulla gara d'appalto per la realizzazione del porto di Bagnara Calabra, vinta dal catanese Costanzo con un ribasso incredibile. Infatti, evidenziò all'ufficio competente della Regione le palesi incongruenze esistenti tra il costo dei lavori e l'offerta presentata. La gara fu annullata e alla seconda mio padre non poté partecipare perché lo avevano già ammazzato. I lavori se li aggiudicò poi un'altra impresa siciliana, quella di Graci".
"Lui quella mattina, come faceva regolarmente, uscì di casa, in via Apollo, intorno alle 8 e 20. Si mise in macchina, partì e subito dopo saltò in aria. Mia madre, come faceva ogni giorno, stava sul balcone per salutarlo. Quando esplose l'auto, lei cadde all'indietro e si sollevò subito un gran polverone che le impedì di vedere cosa era realmente accaduto. Pensò subito al terremoto e infatti chiamò la cameriera e le disse di scendere subito giù per avvertire il marito e dirgli di non partire. Ma la donna, dopo essersi accorta di quello che era successo, fu costretta a risponderle che quel boato che si era sentito in tutta Reggio, non era stato determinato da movimenti sismici bensì dall'auto dell'ingegnere che era saltata in aria. Mamma si precipito giù per le scale e fu un'anima pietosa, un vigile del fuoco, a prenderla in braccio e riportarla a casa. Non era possibile guardare quello spettacolo. Io intanto continuavo a telefonare a casa e mi rispondevano sempre persone che non conoscevo. Infine mi passarono mia sorella Antonella che è stata fortissima nel dirmi che papà stava bene, gli avevano sparato alle gambe ma non era in pericolo di vita. Io mi precipitai in aeroporto, a Fiumicino, per prendere il primo aereo disponibile. E non facevo altro che piangere infatti dovettero darmi del Valium per calmarmi. Arrivata a Reggio Calabria vennero a prendermi degli amici e per consolarmi mi dissero che se avessi continuato a disperami in quel modo, mio padre lo avrei fatto morire prima del tempo. Quelle parole, dette anche con una certa severità, riuscirono a calmarmi. Perché se mi rimproveravano allora papà non era morto per davvero. Ma quando la macchina non imboccò la strada dell'ospedale ma quella per andare dove abitavamo, capii subito. E poi vidi quell'inferno, il palazzo sventrato, tantissima gente nelle scale, casa mia aperta con tanti estranei dentro e io una volta entrata dentro mi diressi subito verso la camera di mio padre nella speranza di trovarlo nel suo letto. Ma lui non c'era. Poi mamma mi disse che papà era morto. Mi spiegarono cosa era successo e io chiesi di poterlo vedere ugualmente ma mi fu impedito".
Da quel momento Adriana non riuscii più nemmeno a deglutire l'acqua. Fu costretta a nutrirsi attraverso le flebo per molti mesi perché non era più capace neanche di mangiare.
"Poi mio padre fu portato all'obitorio e appena fu possibile lo portai a casa mia - continua -. Quel giorno stesso annunciai che mi sarei costituita parte civile e che avrei raccontato tutto quello che sapevo, tutte le confidenze che mi fece mio padre. Lui aveva sempre temuto che gli facessero saltare i mezzi o che potessero rapire mio fratello Marco che all'epoca era ancora piccolo, aveva 17 anni. Fino a quel momento aveva ricevuto qualche richiesta estensiva ma non era preoccupato per questo. Mio padre era un cittadino normale, di certo non si sarebbe mai aspettato di fare quella fine. Quello che io ho voluto riscattare in tutti questi anni è stato proprio il cittadino comune, quell'uomo che è stato fatto a pezzi ingiustamente. Perché nel nostro Paese in tanti hanno la memoria corta e rischi di morire ammazzato e cadere nell'oblio. Quante sono le vittime dimenticate? Sono circa 1000 i nomi che ricordiamo ogni anno, il 21 marzo, durante la giornata nazionale contro le mafie. Se le famiglie non si mettono in gioco, queste persone saranno dimenticate per sempre. E non sarà certo lo Stato ad aiutare in questo percorso di recupero della memoria. Mio padre è stato riconosciuto vittima di mafia dopo 27 anni dalla sua morte. Se io non avessi lottato tanto, lo Stato si sarebbe ricordato di lui? Si parla soltanto delle vittime illustri, non si ricorda un cittadino comune. Io con papà, con quella persona mortificata nel corpo e nell'anima, ho preso un impegno, perché la sua morte ingiusta non venga dimenticata. Io credevo nella giustizia, oggi ci credo molto meno. Quando uccisero mio padre mi sono fidata dei magistrati ed ero convinta che quello che avevo riferito, di certo avrebbe aiutato a scovare i colpevoli. E invece otto anni dopo ci fu un'archiviazione contro ignoti. Ma ignoti non lo erano per me. Il suo omicidio segnò l'alleanza tra mafia siciliana e 'ndrangheta calabrese, per la prima volta uniti dal traffico di droga e altri business. Leggendo le carte si intuisce benissimo qual è stato il percorso che ha portato alla sua eliminazione. E non fu solo il tritolo a ucciderlo ma anche un sistema fatto di politici assenti, di magistrati che invitavano a ritornare a casa e di non occuparsi di alcune cose. Io però ho denunciato ad alta voce. L'ho fatto nel 1992, a 10 anni dalla morte di papà, con la manifestazione "Un fiore per non dimenticare". L'incontro con il giudice Antonino Caponnetto mi ha allargato ancora di più gli orizzonti. Quando a piazza Castello, davanti al tribunale, ho chiesto la riapertura del caso Musella, un magistrato della Dda, Salvatore Boemi, ha ripreso in mano il caso arrivando a chiedere anche delle misure cautelari. Ma purtroppo le sue richieste non furono accolte. Io credo comunque, con la mia lotta per la legalità, di avere costruito resistenza e soprattutto di avere onorato la memoria di mio padre".
Adriana Musella conserva ancora gelosamente l'agenda del suo papà miracolosamente sopravvissuta all'esplosione. Sulla copertina ci sono ancora le tracce del suo sangue e all'interno frammenti della sua storia umana e professionale. Una storia che le appartiene e che difenderà sempre. Nonostante il tempo. Nonostante la mancata giustizia.
Luciana De Luca
del 21 settembre 2016
"Cio che non sono mai riuscita ad accettare della morte di mio padre è la mortificazione a cui è stato sottoposto il suo corpo. Quel giorno, sotto casa, il tritolo che avevano piazzato sotto la sua auto, lo ha dilaniato". Adriana, figlia di Gennaro Musella, l'ingegnere navale ucciso il 3 maggio del 1982, a Reggio Calabria, davanti alla bara dell'uomo che più di tutti aveva contato nella sua vita, giurò che avrebbe fatto di tutto per mantenere viva la sua memoria. E da quell'atto di ribellione e di dolore, nacque anni dopo il "Coordinamento nazionale antimafia Riferimenti", il cui simbolo, una gerbera gialla, ricorda il fiore preferito da suo padre, la margherita, e il suo stelo lungo e robusto, la passione e la tenacia nel portare avanti il suo impegno. Nonostante gli attacchi e il prezzo, molto alto, che ha pagato sul piano personale.
"Perchè papà era un uomo buono, una persona che non vedeva mai il male nelle cose, perché il male non gli apparteneva. Lui aveva fiducia nel prossimo - spiega Adriana-. Per questo il suo assassinio per me è stato un atto di estrema crudeltà. Conoscendo il suo carattere, lui una cosa del genere non l'avrebbe mai neanche lontanamente immaginata. Inoltre era sempre accanto ai più deboli. Chi l'ha conosciuto può testimoniare. Io non ricordo di aver mai avuto uno schiaffo da parte sua. Era una persona molto dolce, che invitava sempre al ragionamento. Ricordo le sue carezze, tante, i suoi sorrisi accoglienti. Reagiva soltanto davanti alla prepotenza e quando qualcuno approfittava, per raggirarlo, della sua disponibilità. Papà aiutava tutti e se un suo operaio aveva delle difficoltà sapeva bene di poter contare su di lui. Sui cantieri mangiava sempre in loro compagnia, alla pari".
Gennaro Musella, salernitano, si occupava della realizzazione di opere marittime. Nel cosentino aveva costruito sia il porto di Cetraro che quello di Belvedere Marittimo. Suo padre era un armatore. Lui, cresciuto sin da piccolo nei cantieri navali, aveva studiato ingegneria a Genova per continuare la tradizione di famiglia. Era un ragazzo allegro e volenteroso. Anche quando durante il periodo della guerra, come raccontava ai suoi figli quando facevano i capricci perché non volevano mangiare, era stato costretto a nutrirsi di sole bucce di patate.
I suoi impegni lavorativi lo portavano sempre più spesso in Calabria, nel reggino in particolare.
"Papà ha viaggiato per molto tempo - spiega Adriana - e mia madre, io e i miei fratelli Anna Maria, Antonella e Marco, stavamo a Salerno. Ma mamma a un certo punto decise di seguirlo e per me che allora avevo 17 anni, fu un vero trauma lasciare la mia città e una miriade di cugini, le mie amiche, le mie abitudini. All'inizio facevo fatica anche a capire quando si parlava in dialetto calabrese. E così ci trasferimmo tutti nella città dello Stretto dove io feci l'ultimo anno di liceo".
Adriana ricorda la lievità del genitore che amava molto la musica napoletana e il bel canto. Era un uomo allegro, sempre con il sorriso sulle labbra. Anche sul lavoro pare arrivasse sempre intonando una canzone. E ad accompagnarlo al pianoforte quando eseguiva brani della tradizione partenopea, c'era sempre il figlio Marco. "Reginella", era la sua preferita. Anche la sera prima dell'attentato in cui ha perso la vita, ha cantato la sua Napoli.
"E poi amava cucinare il pesce - racconta Adriana -, perché papà aveva sempre fatto vita di mare. E l'arte, la pittura in particolare, e i fiori. Quando tornava dai cantieri si fermava per raccoglierli ai bordi delle strade e li portava a casa. Papà era una persona semplice, non è mai stato un eroe e io non ho mai voluto che lo diventasse, neanche dopo la sua morte".
E poi amava molto i suoi figli, la sua famiglia d'origine, la sua mamma, i suoi fratelli. Loro dopo la sua scomparsa si sono addirittura rifiutati di venire in Calabria.
"Ma non credo che la colpa della sua morte sia di questa terra - continua la figlia-. Lui la Calabria l'amava molto. Era innamorato soprattutto di Bagnata Calabra dove aveva comprato dei terreni sulla quale c'era anche una torre saracena, torre Ruggero. In questo posto voleva realizzare la seconda Positano, immaginava strutture turistiche e opportunità occupazionali per tutti. Quando ci fu l'alluvione papà mise a disposizione tutti i suoi mezzi per liberare la zona dal fango. E lo fece gratuitamente".
Gennaro Musella non si sentiva minacciato dalla criminalità, era convinto che la Calabria non gli avrebbe mai mostrato il suo volto duro perché lui rispettava quei luoghi e le persone con cui condivideva il suo tempo . E quando i suoi amici campani lo mettevano in guardia contro quella "brutta gente", lui rispondeva di contro che i calabresi avevano un cuore grande. Lui li conosceva, lo sapeva bene.
"Io non ho mai provato risentimento nei confronti dei calabresi - spiega Adriana -. Mio padre volle venire a vivere qui e io rispetto ancora oggi quella scelta".
Del suo genitore la presidente di "Riferimenti", ha ancora un ricordo vivido, prezioso. E struggente.
"Quando volli sposarmi ancora giovanissima, avevo appena iniziato l'università - ricorda -, lui mi mise davanti un miliardo di possibilità allettanti come andare a studiare a Parigi o alla Bocconi a Milano pur di non farmi fare quel passo. Le ha provate tutte ma io testarda ho voluto andare fino in fondo e lui alla fine ha rispettato la mia scelta. E proprio per il legame speciale che c'era tra di noi mi sono sempre guardata bene dal deluderlo. La nostra complicità mi impegnava ad avere con lui un rapporto leale, rispettoso. Mia madre era molto più severa e quindi papà per me era il mio confidente, un amico. Non gli ho mai nascosto niente e credo di aver ereditato da lui la fiducia nel prossimo anche se poi, proprio per questo, ho avuto delle profonde delusioni. Io ho sofferto molto quando mi hanno fatto del male gratuitamente perché non riuscivo a spiegarmi tanta cattiveria nei miei confronti".
Adriana Musella aveva 29 anni e un figlio di 10, quando le hanno ucciso il padre.
"Quando ti ammazzano una persona cara -racconta -, la famiglia continua a pagare anche dopo. E ti assale la disperazione, l'incredulità, l'impotenza, io non auguro a nessuno la fine che ha fatto papà, con una mano in un posto, un braccio in un altro, le gambe amputate, il cervello che è schizzato fino al portone del palazzo di fronte. Le conseguenze di una tale esperienza si vedono a medio-lungo termine nelle persone. Anche dopo la sua morte abbiamo ricevuto richieste estorsive, volevano soldi gli sciacalli, ci hanno telefonato dicendo che ci avrebbero fatto fare la stessa fine di mio padre. E per un lungo periodo davanti al nostro portone ancora sventrato dall'esplosione, c'era sempre una macchina della polizia. Mio figlio Saverio era legatissimo al nonno e papà lo accompagnava ogni mattina a scuola. E infatti il giorno in cui è saltato in aria, si era diffusa la voce che in macchina ci fosse anche il bambino. Io non ero a Reggio Calabria. Mi trovavo a Roma con mio figlio per una visita specialistica. Credo che questo consulto medico gli abbia salvato la vita".
Adriana Musella, seppur dopo tanti anni di impegno sul fronte della memoria, non riesce a trattenere le lacrime quando si percorre la vita a ritroso, fino a quel 3 maggio del 1982,
"Io sono stata svegliata verso le 8 e 45 da una telefonata di estranei che mi invitavano a ritornare subito a casa, a Reggio, perché mio padre non stava bene - ricorda -. Non riuscivo a spiegarmi perché mi chiamavano degli sconosciuti. Io papà l'avevo sentito la sera prima e lui era molto nervoso e arrabbiato perché gli avevano chiuso la strada a Bagnara, la stessa che portava sui terreni con la torre che aveva acquistato, che era di sua proprietà. Noi ci chiamavamo almeno due o tre volte al giorno perché essendo io la prima figlia, lui si confidava sempre con me. Papà aveva già denunciato alla Regione le irregolarità sulla gara d'appalto per la realizzazione del porto di Bagnara Calabra, vinta dal catanese Costanzo con un ribasso incredibile. Infatti, evidenziò all'ufficio competente della Regione le palesi incongruenze esistenti tra il costo dei lavori e l'offerta presentata. La gara fu annullata e alla seconda mio padre non poté partecipare perché lo avevano già ammazzato. I lavori se li aggiudicò poi un'altra impresa siciliana, quella di Graci".
"Lui quella mattina, come faceva regolarmente, uscì di casa, in via Apollo, intorno alle 8 e 20. Si mise in macchina, partì e subito dopo saltò in aria. Mia madre, come faceva ogni giorno, stava sul balcone per salutarlo. Quando esplose l'auto, lei cadde all'indietro e si sollevò subito un gran polverone che le impedì di vedere cosa era realmente accaduto. Pensò subito al terremoto e infatti chiamò la cameriera e le disse di scendere subito giù per avvertire il marito e dirgli di non partire. Ma la donna, dopo essersi accorta di quello che era successo, fu costretta a risponderle che quel boato che si era sentito in tutta Reggio, non era stato determinato da movimenti sismici bensì dall'auto dell'ingegnere che era saltata in aria. Mamma si precipito giù per le scale e fu un'anima pietosa, un vigile del fuoco, a prenderla in braccio e riportarla a casa. Non era possibile guardare quello spettacolo. Io intanto continuavo a telefonare a casa e mi rispondevano sempre persone che non conoscevo. Infine mi passarono mia sorella Antonella che è stata fortissima nel dirmi che papà stava bene, gli avevano sparato alle gambe ma non era in pericolo di vita. Io mi precipitai in aeroporto, a Fiumicino, per prendere il primo aereo disponibile. E non facevo altro che piangere infatti dovettero darmi del Valium per calmarmi. Arrivata a Reggio Calabria vennero a prendermi degli amici e per consolarmi mi dissero che se avessi continuato a disperami in quel modo, mio padre lo avrei fatto morire prima del tempo. Quelle parole, dette anche con una certa severità, riuscirono a calmarmi. Perché se mi rimproveravano allora papà non era morto per davvero. Ma quando la macchina non imboccò la strada dell'ospedale ma quella per andare dove abitavamo, capii subito. E poi vidi quell'inferno, il palazzo sventrato, tantissima gente nelle scale, casa mia aperta con tanti estranei dentro e io una volta entrata dentro mi diressi subito verso la camera di mio padre nella speranza di trovarlo nel suo letto. Ma lui non c'era. Poi mamma mi disse che papà era morto. Mi spiegarono cosa era successo e io chiesi di poterlo vedere ugualmente ma mi fu impedito".
Da quel momento Adriana non riuscii più nemmeno a deglutire l'acqua. Fu costretta a nutrirsi attraverso le flebo per molti mesi perché non era più capace neanche di mangiare.
"Poi mio padre fu portato all'obitorio e appena fu possibile lo portai a casa mia - continua -. Quel giorno stesso annunciai che mi sarei costituita parte civile e che avrei raccontato tutto quello che sapevo, tutte le confidenze che mi fece mio padre. Lui aveva sempre temuto che gli facessero saltare i mezzi o che potessero rapire mio fratello Marco che all'epoca era ancora piccolo, aveva 17 anni. Fino a quel momento aveva ricevuto qualche richiesta estensiva ma non era preoccupato per questo. Mio padre era un cittadino normale, di certo non si sarebbe mai aspettato di fare quella fine. Quello che io ho voluto riscattare in tutti questi anni è stato proprio il cittadino comune, quell'uomo che è stato fatto a pezzi ingiustamente. Perché nel nostro Paese in tanti hanno la memoria corta e rischi di morire ammazzato e cadere nell'oblio. Quante sono le vittime dimenticate? Sono circa 1000 i nomi che ricordiamo ogni anno, il 21 marzo, durante la giornata nazionale contro le mafie. Se le famiglie non si mettono in gioco, queste persone saranno dimenticate per sempre. E non sarà certo lo Stato ad aiutare in questo percorso di recupero della memoria. Mio padre è stato riconosciuto vittima di mafia dopo 27 anni dalla sua morte. Se io non avessi lottato tanto, lo Stato si sarebbe ricordato di lui? Si parla soltanto delle vittime illustri, non si ricorda un cittadino comune. Io con papà, con quella persona mortificata nel corpo e nell'anima, ho preso un impegno, perché la sua morte ingiusta non venga dimenticata. Io credevo nella giustizia, oggi ci credo molto meno. Quando uccisero mio padre mi sono fidata dei magistrati ed ero convinta che quello che avevo riferito, di certo avrebbe aiutato a scovare i colpevoli. E invece otto anni dopo ci fu un'archiviazione contro ignoti. Ma ignoti non lo erano per me. Il suo omicidio segnò l'alleanza tra mafia siciliana e 'ndrangheta calabrese, per la prima volta uniti dal traffico di droga e altri business. Leggendo le carte si intuisce benissimo qual è stato il percorso che ha portato alla sua eliminazione. E non fu solo il tritolo a ucciderlo ma anche un sistema fatto di politici assenti, di magistrati che invitavano a ritornare a casa e di non occuparsi di alcune cose. Io però ho denunciato ad alta voce. L'ho fatto nel 1992, a 10 anni dalla morte di papà, con la manifestazione "Un fiore per non dimenticare". L'incontro con il giudice Antonino Caponnetto mi ha allargato ancora di più gli orizzonti. Quando a piazza Castello, davanti al tribunale, ho chiesto la riapertura del caso Musella, un magistrato della Dda, Salvatore Boemi, ha ripreso in mano il caso arrivando a chiedere anche delle misure cautelari. Ma purtroppo le sue richieste non furono accolte. Io credo comunque, con la mia lotta per la legalità, di avere costruito resistenza e soprattutto di avere onorato la memoria di mio padre".
Adriana Musella conserva ancora gelosamente l'agenda del suo papà miracolosamente sopravvissuta all'esplosione. Sulla copertina ci sono ancora le tracce del suo sangue e all'interno frammenti della sua storia umana e professionale. Una storia che le appartiene e che difenderà sempre. Nonostante il tempo. Nonostante la mancata giustizia.
Luciana De Luca